Tanti anni fa entrai in possesso di un vaso proveniente da un remoto villaggio del Burkina Faso. Un vaso in argilla cotta a fuoco aperto, in fossa, di colore rossastro con zone più scure, maggiormente ossidate dal calore. Quello che più mi emoziona di questo vaso, oltre alla sua matericità così calda e viva, è nascosto in un punto non troppo visibile ed è l’impronta delle dita del vasaio che lo ha realizzato e fatto cuocere. Devo cercarle un po’ ma appena le individuo sono chiare e nette e mi piace appoggiare le mie dita su quelle impronte lasciate da un uomo che mai conoscerò in un posto che, probabilmente, mai vedrò dal vivo. Quell’impronta è un filo che unisce me a lui. Un pezzo della sua storia nella mia storia. Ed è esattamente ciò che per il filosofo Walter Benjamin costituisce l’essenza della narrazione: il narratore è colui che riesce a trasformare un fatto in esperienza, calandolo nella propria vita e facendone dono a chi ascolta. “Così vi resta il segno del narratore come quello della mano del vasaio sulla coppa di argilla”.
Un testo è innanzitutto uno spazio di relazione. Un campo aperto in cui si fronteggiano, scambiano, si guardano esperienze. Un testo non è uno spazio neutro, ma uno spazio di vita e nell’esperienza la dimensione individuale della memoria entra in congiunzione con la dimensione collettiva, come scrive Walter Benjamin in Di alcuni motivi in Baudelaire (Angelus Novus, ed. Einaudi). Io porto nel testo il mio vissuto: il mio testo è anche il mio contesto. E la narrazione, secondo la lettura di Benjamin in Il narratore – Considerazioni sull’opera di Nicolaj Leskov (sempre in Angelus Novus), è l’espressione di questa relazione tra esperienze. Il narratore raccoglie una storia, la fa propria, la trasmette. E chi la riceve può a sua volta farla propria e ritrasmetterla: narrare significa quindi trattenere in sé per poi rinarrare.
Chi ascolta può trattenere perché è libero di assimilare ciò che è narrato, di tesserlo “nella stoffa della vita”. Essenziale nella narrazione è questa libertà di interpretazione: solo così il narrato acquista “un’ampiezza di vibrazioni” che manca all’informazione, contraltare della narrazione, secondo Benjamin, nel mondo moderno. L’informazione è un prodotto: deve arrivare a tutti, essere plausibile, verificabile, veloce. L’informazione vive nell’attimo. La narrazione, invece, ha bisogno di tempo per svolgersi e di un ascoltatore che faccia il vuoto per trattenere e poi ritrasmettere, ogni volta portando qualcosa di sé e trasformandolo in esperienza che si propaga, “di bocca in bocca”.
Quello della narrazione è un movimento a cerchi concentrici: da una narrazione ne nasce un’altra che a sua volta, scomparendo, ne fa nascere un’altra ancora. In modo potenzialmente infinito.
L’informazione vive di novità, mentre la narrazione possiede una forza concentrata che si dispiega nel tempo. E Benjamin usa un’immagine bellissima: le narrazioni sono come quei “chicchi di grano rimasti ermeticamente chiusi per millenni nelle celle delle piramidi e che hanno conservato fino a oggi la loro forza germinativa”.
L’arte del narrare nasce con i mercanti che portavano storie da lontano, storie che passavano di bocca in bocca e poi cresce con le botteghe artigiane. Mentre la mano tesseva, l’occhio seguiva il movimento. Il corpo era concentrato sul lavoro e l’animo in ascolto, dimentico di sé, capace, così di ricevere. Quello della narrazione è anche lavoro artigianale: il narratore ricava ciò che narra dalla propria o altrui esperienza e lo trasforma in esperienza di chi lo ascolta, donandogli un qualcosa in più che egli prima non aveva e che gli è di vantaggio. La materia prima del narratore è la vita che viene artigianalmente lavorata in modo “utile, solido, irripetibile”, imprimendo il proprio segno, plasmata nella propria esperienza e trasmessa.
Ascolto, trattengo, ritrasmetto: il flusso della narrazione è un processo di acquisizione cognitiva e di rielaborazione dell’esperienza. La centralità del fare esperienza tramite la narrazione viene evidenziata nella narratologia moderna dal concetto di “esperienzialità”: la capacità delle narrazioni di evocare in chi le riceve un’esperienza di vita. Monica Fludernik in Towards a “natural” narratology definisce l’esperienzialità come l’evocazione “quasi mimetica di un’esperienza di vita reale”.
Letture:
Walter Benjamin, Angelus Novus – Saggi e frammenti
Monika Fludernik, Towards a ‘Natural’ Narratology